Quand’ero bambino non pensavo certo di fare l’insegnante. Vivevo in un paese della Bassa milanese, ero figlio di medici. A scuola avevo una maestra che adoravo; ho fatto in tempo a stare su banchi di legno massiccio, di quelli che si vedono nei film in bianco e nero, intarsiati da generazioni di temperini annoiati e irriverenti. Litigavo con i pennini in acciaio per realizzare i pieni e i vuoti delle lettere. Con i trentatre miei compagni, tutti maschi, si dividevano le merendine e si faceva a botte. Ma non ricordo vera cattiveria, né qualcosa di simile alla lotta di classe, per quanto il Sessantotto incombesse. Giocavo con tutti, dal figlio dell’amica del cuore di mia mamma ai figli dei portinai della villetta tre numeri civici più in giù nella via. A casa a partire dai sei-sette anni leggevo tutto quello che trovavo nella libreria in salotto, dai gialli di Ellery Queen in su. Verso i dieci anni tentai perfino di leggere un libro polveroso che nessuno apriva mai, con su scritto «Sofocle». Non ci capii nulla e lasciai perdere dopo due pagine. Raccoglievo uccellini morti che sezionavo con un bisturi ormai non più affilato ottenuto da mio padre; collezionavo foglie secche; scendevo a rotta di collo, a circa 8 km/h, per un piccolo scivolo con una macchinina a pedali e poi su una specie di trampolino fatto con un asse sostenuta da un mattone, per provare l’ebbrezza del volo e dello scossone all’atterraggio. Una volta, verso gli otto anni, allagai la cantina per dimostrare che la pressione dell’acqua alla base di un fusto metallico (quello dell’olio Carli, per la precisione) era maggiore di quella in cima. Di pensare a fare in futuro l’insegnante, nemmeno il più piccolo sospetto.
Alle medie cambiò poco, tranne che la mia prof. di italiano sembrava pensare che nulla fosse merito mio ma che tutto dipendesse dal fatto che ero figlio di medici. Ormai avevo fatto fuori tutta la libreria di casa, e non capivo perché i miei si facessero tanti problemi a scegliermi dei regali, quando ricevere un libro nuovo era la cosa che mi dava più piacere.
Al liceo mio padre mi mandò a fare il classico in una scuola privata cattolica a Milano. I miei, onestamente, mi chiesero cosa ne pensassi: ma a me andava bene qualsiasi cosa. Al liceo, per la prima volta, non ero il primo della classe, ma la cosa non mi interessava molto.
Mi pesava invece il fatto di non riuscire ad avere veri amici, perché i miei compagni abitavano a Milano. Quindi passavo il mio tempo a studiare le cose di scuola; a leggere libri per conto mio, non ce la facevo più. Del fervore politico dell’epoca, niente filtrava fino a noi. Ricordo un’unica assemblea di istituto in cinque anni, subito dopo l’omicidio Moro. Comunque, di voler insegnare continuava a non esserci nemmeno il sospetto. Quando arrivò il dopo liceo, furono guai. Scelsi filosofia perché, dissi a me stesso e agli altri, mi permetteva di occuparmi in qualche modo ancora di tutte le altre cose. Cominciò immediatamente la processione di professori e amici dei miei che cercavano di farmi cambiare idea: «Cosa farai? Non vorrai mica insegnare, vero?» In effetti non volevo insegnare: semplicemente non sapevo cosa volevo fare. Perfino mio padre tentò, quasi per l’unica volta in vita sua, di farmi cambiare idea. Solo mia madre mi difese, quasi per l’ultima volta che poté farlo.
In Cattolica a Milano fu uno spasso, almeno dal punto di vista dello studio. Fu verso la fine del corso che si accese in me la nitida convinzione che tutto lo studio che avevo fatto sarebbe stato inutile se non l’avessi condiviso con gli altri. Fu proprio così: si formò la percezione chiara e netta che trasmettere ad altri quello che avevo capito (o credevo di aver capito), era la cosa giusta da fare. Tornai dal mio professore di tesi, che proprio in quel periodo si era messo in testa di fare politica. Mi rise letteralmente in faccia e mi consigliò di cercarmi un posto per insegnare religione. E così feci, ottenendo un posto in un ITIS. Fu la miglior esperienza sul campo che si potesse immaginare. Potere sugli studenti, zero. Possibilità di minacciarli in qualsiasi modo, zero. Libro di testo su cui fare affidamento, zero. Tutto doveva essere conquistato giorno dopo giorno, trovando argomenti validi, ogni volta, per ognuno dei ragazzi (praticamente miei coetanei) che mi dovevano sorbire una volta la settimana. Fu lì che imparai che per insegnare bisogna mettersi in gioco sul serio e capii davvero che l’insegnamento è, nella sua essenza, un rapporto tra persone, a cui il resto fa contorno.
Il resto è storia, ancor meno interessante temo di quanto ho raccontato finora. Soprattutto ho imparato a usare il computer per la scuola, e questo mi ha aiutato molto ad andare avanti: non sapevo nulla e dovevo imparare quasi tutto da solo. Un po’ come quando giocavo col Lego, con la differenza che adesso mi serve per lavorare. Poi è arrivato Internet, poi è arrivato Facebook, poi il blog: ed eccoci qua.